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Quando tutto questo sarà finito, cambierà il concetto di normalità?

Andremo più a vedere un concerto?

Viviamo un tempo difficile; l’emergenza coronavirus ci tiene inchiodati al contingente, al quotidiano, al presente e ci impedisce di volgere lo sguardo al futuro, impedendoci di proiettarci nel futuro, quando cioè l’emergenza sarà conclusa e si tornerà alla vita normale. Ed è proprio questa la domanda che mi pongo: quando tutto questo sarà finito, cambierà il concetto di normalità?


O meglio: ciò che consideravamo assodato, scontato, normale per l’appunto, lo sarà ancora domani?
Insomma: quanto questa emergenza, non solo sanitaria, ma anche sociale, cambierà il nostro modo di vivere, i nostri usi e i nostri costumi?
Non possediamo dati scientifici, statistici o empirici, per poter confutare questa nostra asserzione; ma è percezione diffusa che, ad emergenza conclusa, muterà radicalmente il nostro sistema delle relazioni sociali.
Siamo chiari: qui non si tratta, tanto per semplificare il concetto, del bacio, della stretta di mano o dell’abbraccio che siamo abituati a scambiarci quando ci incontriamo per strada, tipica manifestazione della solarità di noi siciliani.
No, qui la cosa è molto più complessa: questa crisi stravolgerà profondamente il nostro modo di vivere la comunità; i luoghi di aggregazione, deputati alla approfondimento culturale, alla vita politica, economica, accademica o più semplicemente eletti a luoghi di svago, non saranno più vissuti come ieri.


Per fare alcuni esempi: andremo nuovamente ad un concerto di Vasco Rossi, con la stessa spensieratezza di prima? Quando ci troveremo seduti nella stessa aula universitaria o a scuola, ci concentreremo solamente sulla lezione o ci chiederemo se il compagno di studi che abbiamo al lato è sano o soffra di una qualche forma di patologia?
Quando partiremo per le vacanze, scegliendo la meta turistica e l’offerta di soggiorno, lo faremo con lo stesso spirito di prima o ci potremo mille domande?
Sì badi bene: non mi pongo questi interrogativi per trasmettere, a me stesso prima che agli altri, sentimenti di ansia, di paura o di inquietudine, ma solo per prepararmi e prepararci ad un contesto globale ineluttabilmente destinato a cambiare profondamente il nostro modo di vivere.


Niente paura dunque!
L’uomo è animale abitudinario e per sua natura portato ad adeguarsi al tempo che vive. Noi, oggi, siamo chiamati ad affrontare una duplice sfida: sconfiggere un nemico invisibile ed insidioso, che mette a serio rischio la nostra vita; allo stesso tempo, però, dobbiamo prepararci alle sfide del futuro e della modernità.
Senza voler minimamente fare di tutta l’erba un fascio, o peggio scatenare una guerra fra generazioni (me ne guarderei bene!), tuttavia numerosi dati empirici, provenienti dai vari comuni che stanno affrontando l’emergenza coronavirus, provando a far applicare e rispettare con la massima rigidità i protocolli imposti dal governo e dalle autorità scientifiche per bloccare la curva del contagio, ci dicono una cosa importante: una quota assai preponderante della mobilità non concessa, non autorizzata, riguarda per lo più, soggetti in là negli anni, anziani.


Non saprei dare spiegazioni a questo dato; verosimilmente molti cittadini, i quali evidentemente hanno vissuto nel loro passato crisi di sistema altrettanto drammatiche, conseguenze, per esempio, di conflitti bellici, oggi in molti casi, non hanno ben compreso i rischi che si corrono ed escono con naturalezza e serenità degna di miglior causa, sfuggendo sovente alle regole del contenimento dei rapporti e delle relazioni sociali.
I giovani, al contrario, dimostrano ogni giorno di aver compreso quale significato profondo si celi dietro la frase “Io resto a casa“.
Prepariamoci dunque a sconfiggere il virus, ma allo stesso tempo gettiamo le basi per una riflessione, che renderà più agevole approcciarci insieme alle nuove dinamiche relazionali, che ci riguarderanno tutti.
Allo stesso tempo, credo sarà inevitabile proporre una rivisitazione, altrettanto radicale, del nostro “welfare”, certamente fra i migliori al mondo, per ampiezza della platea sociale tutelata e salvaguardata dallo Stato, ma contestualmente bisognevole di una profonda revisione, che tenga seriamente conto delle esigenze del tempo che stiamo vivendo che, come detto all’inizio di questa riflessione, ha messo in discussione le nostre certezze, denunciando la nostra fragilità, come uomini e come comunità.

Simone Di Paola

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