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L’ultima notte di Amore è un capolavoro poliziesco italiano

L’ultima notte di Amore, Il film con Pierfrancesco Favino esce il 9 marzo nei cinema ed è il più interessante film criminale scritto e girato in Italia da anni 

Con l’aria costantemente arrabbiata del cinema di polizia francese, la capacità di condensare una storia in una notte (sebbene ci siano parecchi flashback) del cinema americano e gli occhi tristi e dolci di Favino che lavorano controtono magnificamente, L’ultima notte di Amore fa qualcosa di classico con stile moderno ed è un piacere guardarlo. 

C’è un poliziotto ad un passo dalla pensione (classico), c’è un possibile nuovo lavoro per lui alle dipendenze di un ricco industriale cinese di Milano (moderno), un primo incarico pericoloso che non va a finire bene (classico) e tutta la seconda parte del film centrata sulle conseguenze di quella notte che si svolge proprio durante quella notte (molto moderno). Il manuale della sceneggiatura poliziesca è tutto rispettato, c’è la posta in palio, l’oggetto conteso, c’è l’etica incrollabile che ha vacillato causando la valanga, ci sono moglie e figlio da aiutare, colleghi corrotti e un mondo nero in cui nuotare, ma Andrea Di Stefano, che il film l’ha scritto e diretto, è bravissimo a celare tutti i passaggi, mascherandoli, trasformandoli, amalgamandoli in un racconto che solo all’apparenza sembra svolgersi caoticamente, proprio perché è perfettamente organizzato.

foto di Loris Zambelli

La storia recente del cinema e della serialità italiane è quella di una ricerca sempre un po’ incompleta di una nuova possibile forma del poliziesco che sia nostra. Ne L’ultima notte di Amore ad esempio è contenuto un pezzo di granito della tradizione italiana poliziesca, cioè la furia energica di un uomo comune che il crimine ha preso di mira di La mala ordina (in cui Mario Adorf è un pesce piccolo su cui la mala scarica la colpa di un crimine e che tuttavia non ci sta ad essere incastrato) e c’è anche la capacità che il nostro cinema ha maturato negli ultimi anni di lavorare su un look internazionale e sulla caratterizzazione, puntando su una delle nostre armi più affilate: gli attori.

La caratterizzazione di Franco Amore, il protagonista, e delle persone intorno a lui è uno dei piccoli segreti del film. Ha la concretezza che lo studio sulle movenze e la parlata meridionale contaminata da anni di vita a Milano gli sanno dare, unita a note d’azione e determinazione negli occhi di Favino che solitamente non appartengono ai protagonisti dei nostri film. Lontano dagli eroi americani dei polizieschi, Franco Amore fa più o meno le loro stesse cose, cioè si giostra tra due fuochi con decisioni rapide e idee affilate, ma con la credibilità dell’umanità quotidiana e ordinaria che lo rendono plausibile. Non è diverso all’apparenza da un qualsiasi agente della polizia con cui si potrebbe interagire.

foto di Loris Zambelli

Eppure per una volta in un film con Favino non è solo lui a stupire. Se di Antonio Gerardi non c’è più nulla che si possa dire, forse il più grande caratterista italiano di questi anni, perfetto in ogni parte, sempre efficace, mai fuori tono, sempre capace di dare ai film o alle molte serie cui ha partecipato esattamente il personaggio che serve con il carisma che serve (sia Antonio Di Pietro in 1992, che all’opposto il calabrese appassionato di George Michael in Bang Bang Baby), è Linda Caridi la scoperta. Lei interpreta la moglie di Franco Amore, donna calabrese di eccezionale energia e appariscente presenza fisica, gran parlata e desiderio di soldi, scalata e benessere. È il contrappeso energetico perfetto per il più compassato Franco Amore. Parte ai margini e conquista il centro della scena a mano a mano che la storia si intreccia e c’è bisogno di determinazione. Linda Caridi le dà una recitazione con il corpo fantastica, forza fisica e uno sguardo che ci convince immediatamente che sia pronta a qualsiasi cosa.

Ma forse ciò che rende più nostra questa storia che per arco narrativo e compattezza può anche sembrare un poliziesco straniero, è l’adesione alla realtà. Il contesto criminale cinese dentro al quale si agita la storia sono stati osservati (da lontano) e studiati da Andrea Di Stefano. Non sono una rappresentazione idealizzata e ironica, nonostante il capofamiglia spietato e potente con occhialoni, calzini bianchi e ciabatte potrebbe esserlo, ma una che si muove dalla cronaca, passa dalle interviste e finisce alla testimonianza in prima persona. È quell’idea che dieci anni fa Gomorra (la serie) aveva iniziato a piantare nel nostro cinema e nella nostra serialità e che, dopo dieci anni di altre mille storie poliziesche raccontate, ha raggiunto un punto diverso sul medesimo percorso. Quella che si può chiamare evoluzione.

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