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Islanda “revolution”, la settimana lavorativa passa a 4 giorni: “È un successo”

Lavorate, nella migliore delle ipotesi, 6 giorni su 7 per stipendi al limite della decenza e non avete il tempo di coltivare il proprio tempo libero? Una soluzione ai vostri problemi potrebbe essere l’Islanda. L’esperimento condotto sulla settimana lavorativa di 4 giorni ha infatti avuto un “successo travolgente”. Lo dichiarano i ricercatori che, dal 2015 al 2019, si sono occupati del progetto che ha ridefinito il rapporto lavoro – qualità della vita. Gli impiegati hanno subito una riduzione delle ore lavorative, mantenendo un salario invariato. 

Prima dell’esperimento, l’Islanda aveva sì uno dei livelli di reddito più alti in Europa, ma con un tasso di produttività molto basso. Secondo i lavoratori, la settimana lavorativa che spesso arrivava anche a 44 ore complessive, aveva provocava ripercussioni negative sulla produttività e sulla vita domestica. In base ad uno studio condotto nel 2005, un lavoratore su quattro si diceva insoddisfatto.


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Il consiglio comunale di Reykjavík e il governo nazionale hanno coinvolto circa 2.500 lavoratori, oltre ad una serie di luoghi di lavoro come scuole materne, uffici e ospedali. La settimana lavorativa è stata ridotta a 35/36 ore – riporta Tgcom – senza una variazione del salario e senza aggravanti per i datori di lavoro. I risultati, pubblicati dal think tank britannico Autonomy e dall’Associazione islandese per la democrazia sostenibile, hanno mostrato un calo dei livelli di stress e un maggiore equilibrio tra lavoro e vita privata. “Questo studio mostra che la più grande prova al mondo di una settimana lavorativa più corta nel settore pubblico è stata sotto tutti i punti di vista un successo travolgente”, ha detto Will Stronge, direttore della ricerca presso Autonomy. 

I sindacati hanno quindi spinto sulla riformulazione degli orari lavorativi a livello nazionale. Al momento in Islanda l’86% della forza lavoro è passata ad orari più brevi, seguendo il nuovo modello proposto. Quello islandese potrebbe infatti diventare un modello di business esportabile in tutto il mondo. In Spagna e in Nuova Zelanda sono già in corso esperimenti simili per valutarne gli effetti economici e sociali. “Il settore pubblico è pronto a fare da pioniere in questo ambito e anche altri governi possono trarne insegnamento”, ha continuato Stronge. 

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