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La morte accademica…

Dieci anni fa la mia vita di studente di Ingegneria Informatica era felice e spensierata, almeno in apparenza. Tutto questo perché, fra le materie del secondo anno, ne avevo messa da parte una da dare per ultima: Comunicazioni Elettriche (10 Cfu), la vera materia scoglio del mio corso di laurea, così composta:

  • Teoria dei segnali (90 percento);
  • Comunicazioni elettriche propriamente dette (10 percento);
  • Morte accademica (10 percento).

Già due anomalie: il contenuto che dà il nome alla materia pesa poco in relazione al totale e, soprattutto, la somma degli ingredienti supera il 100 percento. Ma queste sono cose che io e i miei colleghi avremmo scoperto solo frequentando il corso. Si trattava di una materia micidiale, con una matematica hard core che presupponeva che uno avesse ben chiare l’analisi matematica e l’algebra lineare, cosa che a venti anni non sempre è da dare per scontata. Nel mio caso, non lo era e ciò ha complicato le cose non poco.

Se avessimo dovuto assegnare un carico in crediti formativi universitari a questo insegnamento, avremmo assegnato non meno di 100 Cfu, specie dopo che, a caccia di dispense presso il centro stampa di lettere, che ospitava anche il nostro materiale, avemmo appreso che quei fricchettoni studiassero “Lingua, cultura, filosofia e religioni dell’India” per ben 9 Cfu. Oltraggioso! Li avremmo messi tutti a fare Trasformate di Fourier, altroché!

Come se le difficoltà non fossero abbastanza, il docente di questa materia sembrava uscito da qualche sadico film dell’orrore. Di sicuro dal dipartimento di Ingegneria Elettrica, considerata Ingegneria Hard Core (unitamente a Ingegneria Civile) da noi informatici, che ci sentivamo un po’ meno ingegneri di tutti gli altri, eccetto, ovviamente, quelli di ingegneria gestionale che, a parte tante belle studentesse, non ci sembravano degni di ingegneristica considerazione.

Sguardo assassino, pronto ad incenerire ogni commento non necessario con una battuta tagliente, come sperimentò amaramente quel collega che alla prima lezione volle fare il simpatico e che non abbiamo più rivisto nelle lezioni successive, il docente metteva davvero paura.

Alto e fisicato a dispetto dei suoi 45 anni, era solito minacciarci di “morte accademica!” se avessimo sbagliato certi passaggi. A volte diceva “integrare bovinamente”, qualora l’ignaro studente si fosse avventurato in complicati integrali anziché usare i “barbatrucchi” di cui era costellata questa materia. Io stesso, che ero un tipo abbastanza spavaldo, mi cagavo in mano al pensiero di contraddirlo.

Dovevo essere in buona compagnia, visto che di tanto in tanto, quando il docente doveva cancellare quei cinque o sei metri di integrali doppi in cui si produceva a lezione, chiedeva se avessimo capito tutto e tutti. Oh, ci fosse stato mai uno che abbia detto di no! Una volta stava scrivendo una matematica più strana del solito. Notò i miei occhi intrecciati. Si fermò e si accorse che aveva sbagliato un passaggio. Quasi mi ringraziò, ma la verità è che nulla avevo capito prima, ancor meno avevo capito dopo.

Un’altra volta, coraggiosamente, tutta la classe ebbe un dubbio su un passaggio. Ma il prof: «Questo passaggio, c’avete provato in tanti a smontarmelo nei vari anni, ma non ci siete mai riusciti. Dunque è sicuro giusto». Il suo assistente, assai più mite, era solito domandare: «Quanti non hanno capito niente?» e una selva di mani si alzavano invocando pietà. Questa frase fu più volte immortalata dal giornalino di facoltà, che leggevo per la sola rubrica delle citazioni. Se non fosse stato per quelle innumerevoli esercitazioni pomeridiane, chissà se avrei mai conseguito l’agognato titolo…

Io e i miei colleghi di studio sognavamo la notte questo docente e temevamo di non riuscire a laurearci, ma tipo mai, a causa di Comunicazioni Elettriche. Vivevamo la cosa con gran malessere, dunque decidemmo di attuare un piano: studiare, non c’erano storie! Quando studi Ingegneria, devi mettere in atto delle strategie atte a conservare te stesso e a non farti schiacciare dagli studi. Una di queste consiste nel partire dalla fine, come nel Ray Tracing. Ovvero: dall’esame.

L’esame consisteva in alcune fasi, in cui ci si giocava mesi di studi in poche ore. Rigorosamente in ordine di arrivo all’esame, si veniva interrogati. Veniva estratto un esercizio da un famigerato blocco di fogli. Questi esercizi erano noti, poiché testi e soluzioni (spesso errate) si trovavano presso i centri stampa. Ho consumato cinque o sei penne gialle e nere da ingegnere nel risolverli, tanto che sapevo intuire chiaramente quando le soluzioni proposte fossero campate in aria.

Se la risoluzione dell’esercizio fosse stata errata, l’esame sarebbe continuato, ma con una tara: il voto massimo sarebbe stato 24. Un ventiquattro in questa materia può costituire un gran successo, ma questo va conquistato con un esame orale e il docente era considerato, a ragione, un vero osso duro. Iniziammo a frequentare questi esami come spettatori, prendendo appunti sulle domande fatte all’orale. Iniziammo a notare alcuni temi ricorrenti e a studiarli alla perfezione, io e V.

Infine, bisognava studiare “millemila” dimostrazioni di teoria dei segnali, ma erano i fondamenti dell’era dell’Informazione e, con molto impegno, riuscimmo anche in questo, colmando anche le lacune di base. All’approssimarsi dell’esame, mi accorsi di non sapere nulla di quel 10% di comunicazioni elettriche! Scelsi, ponderando il rischio, di non volerne sapere nulla per fare spazio al resto. Dopo due mesi pieni di studiare ogni pomeriggio insieme fino a tardi, ci sentimmo quasi pronti per sostenere l’esame e ci presentammo all’ora e al luogo prefissato, ossia nell’ostile dipartimento di Ingegneria Elettrica, giusto in tempo per scrivere i nostri nomi in fondo al foglio degli iscritti.

Con orrore e raccapriccio, scorsi un libro di “Comunicazioni elettriche” sotto il braccio dell’assistente. Ero fregato. Con sadico piglio, il prof. decise di chiamare per primi gli ultimi due della lista, ossia io e V. Poco male, pensai. Meglio sapere subito di che morte morire. Per me fu pescato un esercizio mai visto. Iniziai ad “integrare bovinamente”, ma ad ogni passaggio l’espressione aumentava di lunghezza, tanto che, raggiunto il metro lineare, ripiegato più volte per entrare nel foglio, decisi di mollare.

Consegnai il foglio al prof. che mi fece notare che se avessi considerato la natura energetica di quel maledetto segnale, avrei risolto in un solo passaggio l’esercizio. Figuraccia e tara. V. doveva aver beccato qualcosa di familiare, tanto che lo risolse subito e bene. Si passa all’orale con l’assistente. Con sollievo, mi accorgo che il libro che aveva sottobraccio fosse di calcolo delle probabilità. Mi chiese una dimostrazione. Con mano tremante riuscii a portarla avanti. Poi inventò un esercizietto dove mettere in pratica delle tecniche. Mi bloccai ad un certo punto, ma con un’imbeccata riuscii ad andare avanti. Era quasi fatta.

Ultima domanda: dimostrazione della diseguaglianza di Bessel, una di quelle cose imbevute di algebra lineare, materia che ebbi modo di recuperare proprio durante questi studi. Tutto alla grande, finché non mi produssi nella seguente “minchiata atomica”: «Pertanto, poiché i due segnali possiedono eguale norma, essi sono uguali».

Mi vergogno ancora oggi per aver aperto bocca e per aver fatto uscire questa scemenza atroce. Il prof. alzò il sopracciglio, mentre l’assistente mi fece capire subito la portata della mia infausta affermazione. Feci ammenda e conclusi la dimostrazione. Nulla mi venne chiesto di quella parte che, colpevolmente, scelsi di ignorare.

Doveva essere, pertanto, il mio giorno fortunato. Il prof: «Sulla base di quanto ho sentito, approvo l’esame con ventidue». Firmai. V., che non sbagliò nulla, ottenne un meritato trenta. Mi sentii finalmente sollevato, ma ebbi anche la brutta sensazione di aver rubato. Sì, perché io, al posto del terribile prof., mi sarei bocciato e avrei decretato, per me medesimo, morte accademica.

Ma ciò non avvenne e potei laurearmi.

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A proposito dell'autore

Nato nel 1984, è laureato in Ingegneria Informatica. Lavora come programmatore dal 2004. Ama l'Open Source, lo judo, la moto, la mountain bike. Nel tempo libero è solito sbertucciare i complottisti a spasso per il web e scrivere storie di poco false. Di tanto in tanto affiorano in lui dei ricordi sui suoi trascorsi da studente, poi si sveglia tutto sudato.

11 Risposte

  1. Marika

    Mi stavo fermando a “Fricchettoni” ma ho voluto dar fiducia all’articolo… Grave errore, visto che poi ha continuato con “quelli di ingegneria gestionale”. A quel punto è stato meglio non finirlo.
    Ancora? Basta con sta storia che solo gli ingegneri studiano. Ci facciamo tutti il culo in un modo o nell’altro.
    P.S. Studio ingegneria aerospaziale,che posto occupo nella gerarchia?
    Sdegno.

  2. Emanuele

    Ciao! Ero pronto ad un intervento del presidente della Camera per via della mia battuta sessista sull’avvenenza delle allieve ingegneri gestionali di allora. Tuttavia non ero pronto allo sdegno di una giovane collega. Lungi da me l’idea di poterti far cambiare idea su di me, ma ci tengo a fornire un paio di note di contesto.
    Ho due risposte, di cui una breve che contiene tutto: “42”. Segue la risposta lunga.

    “Fricchettoni”: detta come va detta, ingegneria confina con lettere. Non so se è ancora così, ma nel parchetto retrostante il centro stampa e il bar di lettere stazionavano sempre dei soggetti altamente stereotipati e “Ora ti sfondo i bonghi” era di là da venire. Non mi risulta che sussistano sfumature denigratorie del termine, ma probabilmente il dizionario sbaglia. Inoltre ho frequentato alcune lezioni a lettere (sono curioso come una scimmia, anzi, come un allievo ingegnere). Posso cambiare ciò che penso, ma non ciò che vedo.
    “Solo gli ingegneri studiano”. Non ho affermato questo. Ho sostenuto qualcos’altro.
    Nessun uomo è un’isola e fra allievi ingegneri ci si parlava. Quelle che ho riportato erano esclusivamente le opinioni del tempo. Vedevamo come macigni micidiali materie come “Campi magnetici” o “Fisica tecnica”, tipiche dell’Ingegneria Elettr[on]ica/TLC. Tutta ingegneria civile era una nuvola confusa e inestricabile, un posto in cui si entrava e poi chissà, forse ci si annientava come in uno scontro materia-antimateria. Quelli per noi erano i più cazzuti di tutti: facevano ponti!
    Di contro, noi informatici avevamo dei momenti di puro godimento nel nostro piano di studi, e questo ci faceva sentire in difetto rispetto alle storie di lacrime e sangue degli altri allievi. C’erano materie che ci permettevano di essere creativi e che quasi non ci pesavano come fondamenti di informatica, 12 CFU in scioltezza, programmazione, ma soprattutto ingegneria del software, il cui progetto finale ci ha coinvolto in gruppi che si sono scatenati nel produrre soluzioni davvero ingegnose per un problema reale.
    Ricordo riunioni estemporanee, prima delle lezioni, in cui progettavamo sistemi (penso al server di chat, che sarebbe stato ospitato dall’unico studente con l’ADSL a casa, allora. O al risolutore di circuiti, da vendere sottobanco agli studenti che dovevano sostenere l’esame di elettrotecnica). Il fatto che la realizzazione del tutto fosse immateriale e non passasse per calcestruzzo, tondini di ferro, stagnatore o aviocarburante, però, ci faceva sentire in difetto rispetto agli altri ingegneri, con cui intrattenevamo relazioni diplomatiche.
    “Aerospaziale”: mi chiedi che posto occupa nella gerarchia. Non ne sapevamo molto, ma avevo amici e parenti che stavano studiando. Ricordo il terrore nei loro occhi quando menzionavano una materia sulla meccanica del volo dell’elicottero. Io stesso sono un grande appassionato di aviazione e ho apprezzato un sacco quando hanno installato (ma già avevo terminato gli studi) quel meraviglioso Starfighter, benché privo di motori. In breve, aerospaziale era abbastanza in alto.
    Era invece opinione diffusa che gestionale fosse più una branca di economia, ma per motivi già noti era ben tollerata nel consesso di ingegneria.
    Naturalmente queste sono solo opinioni.
    Ora un fatto: tornato a studiare “da grande”, due anni fa, ho notato che l’avvenenza mediana delle studentesse si è alzata. Di questo voglio rallegrarmi con gli allievi di oggi.

  3. Emanuele

    Sul progetto di ingegneria del software. Era il 2006 e il progetto era una specie di Facebook / LinkedIn. All’epoca, questi progetti erano poco conosciuti in Europa. Quanto ci siamo divertiti…
    La documentazione andava consegnata in notazione UML (Unified Modeling Language). Il gruppo più simpatico (ahimé, non era il mio) si chiamava UML Group (Un Mega Lavoro).

  4. Marika

    Mi hai fatto sorridere, non ti conosco ergo non ho alcuna opinione su di te. Dietro il mio intervento c’era solo un piccolissimo pensiero che mi balena ogni tanto. Voglio dire, sto 24 ore su 24 a fianco di colleghi (maschi) in aula siamo pochissime e ho professori che sostengono “fosse per me alle ragazze che fanno ingegneria non farei pagare le tasse” ma fa nulla, figuriamoci. Il punto è che spesso sento colleghi miei dire “aaah cavolo noi per una materia da 8 cfu dobbiamo studiare 3 libri da 400 pagine, a lettere si beccano 12 cfu per ripetere Leopardi.” ora, è inutile discutere con certe intelligenze, ma mi andava di rispondere a te perché tu hai scritto pubblicamente, e (magari sbagliando) mi hai ricordato proprio l’opinione di questi miei colleghi.
    In ogni caso non era un attacco diretto a te.
    Cordiali Saluti
    Il Presidente della Camera.

  5. Emanuele

    “Il Presidente della Camera.”

    Guarda, me lo auguro per il futuro della nazione. Sarebbe comunque un passettino in avanti.
    Comunque riconsidera le istanze dei tuoi colleghi. Non hanno tutti i torti.

  6. Roberto

    Se una laurea è in lettere è normale che i propri cfu richiedano conoscenze in lettere, se una laurea è in ingegneria è normale che i propri cfu richiedano conoscenze in quel campo. Ed infatti le due lauree danno accesso a cose ben diverse, quindi che a lettere prendano 12 cfu per cose che riguardano la letteratura non mi sembra qualcosa di così scandaloso. Sarebbe scandaloso se le due lauree avessero gli stessi scopi, ma non è così.

    Lo dico da tizio che è d’accordo sul fatto che a lettere e filosofia ci sono persone che fanno le “alternative” ma spesso sono persone che per laurearsi ci mettono 1000 anni, poi ci sono le persone che invece si studiano quattro libri da 400 pagine per un esame da 6 cfu, quest’ultime spesso passano inosservate e se non lo si chiede si potrebbero scambiare per persone normali, cioè persone che fanno ingegneria.

  7. Riccardo

    Ho vissuto l’esperienza della storia fino al 12 giugno di quest’anno. Esperienza che porterò sempre nella mia pancia (termine usato molto dal professore in questione), tutto terminato con un ottimo 30 scaturito da un esercizietto noto e due domande all’orale “pacifiche” (come direbbe l’altro professore).
    Si dice inoltre che adesso il professore sia molto più pacifico (aridaje), però l’ansia di quell’esame me la ricorderò per il resto della mia vita.
    Nonostante tutto posso dire che ho avuto modo di parlare con il professore in privato e devo dire che è una persona veramente gradevole, oltre al fatto che dispensa buoni consigli.

  8. Emanuele

    Ti sono vicino, collega. Tutto ciò ti ha reso un allievo ingegnere migliore, puoi giurarci. Una sola domanda per te: è ancora fisicato? Se sì, riesci a carpire qualche segreto per allenarsi al meglio? 🙂

  9. vito

    Sono un “fricchettone” che, fra le altre cose, ha sostenuto quella materia lì che finisce con “india”, la quale è esattamente l’ opposto di quella che si definisce una materia difficile. Anche se so benissimo che ingegneria è ingegneria, chiunque abbia mai avuto a che fare con una versione di greco o di latino dovrebbe ricordarsi bene che proprio cose “facili” non sono ma sono proprio quelle alcune delle materie fondanti di Lettere…E, beffa totale, io Il latino ce l’ ho da 6 cfu, benchè ne valga il doppio a livello di programma..Detto questo, a ognuno il suo, ammiro gli ingegneri ma mi tengo ben lontano da tutti quei nomi incomprensibili che ho letto in questo post. In bocca al lupo a tutti 😉

  10. Nick

    La cosa che mi fa incazzare è che ha distanza di anni non hai ancora la “personalità” per scrivere il nome del professore: Garbo
    E poi non ho mai capito perchè (eventuali ripercussioni all’esame?) il 99% degli studenti , che pagano questi professori, non hanno il coraggio di chiedere chiarimenti durante e a fine lezione ai professori. Dovrebbero essere gli studenti il tormento dei professori e non viceversa.

    • Emanuele

      Dobbiamo comprendere il processo editoriale. L’ho scritto e mai più modificato. Ecco perché a distanza di anni il nome non è magicamente apparso. Non era comunque necessario perché ogni studente di ingegneria conosce quel nome.
      Ok, ho scritto del prof. Garbo, col mio nome è cognome.
      Di cosa mi accusi, “Nick” ?

      “Ha distanza”. Se non parli di uno spazio vettoriale, temo sia un errore blu.