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“Morire di università”, l’INCHIESTA

La sequenza di suicidi tra gli studenti universitari è un fenomeno che sta diventando sempre più preoccupante, e questa inchiesta di Repubblica ha contribuito a far luce su una situazione che spesso passa inosservata. I suicidi sono spesso il risultato di un accumulo di pressioni, ansie e stress, sia accademici che personali, che possono portare alla disperazione estrema. È importante che il problema venga affrontato e discusso apertamente, in modo da trovare soluzioni efficaci per prevenire futuri incidenti.

L’ultima bugia, la più grande, così difficile da spiegare, ha portato Diana Biondi, 27 anni, fuoricorso alla triennale in Lettere moderne all’Università di Napoli, sul terrazzo di quel ristorante di Santa Maria di Castello chiuso da stagioni. Trentacinque minuti lontano dall’ateneo, due chilometri di salita affannata da casa sua, Somma Vesuviana. Dal terrazzo Diana, sorella maggiore e insicura di una famiglia piccolo borghese, papà impiegato Telecom, mamma casalinga, si è lanciata sul piazzale sottostante, il lato che si affaccia sul vallone. Un volo di quindici metri, poco dopo le sette di sera. Era buio.

Diana è il decimo studente d’università che, negli ultimi due anni e mezzo, si è tolto la vita, schiacciata dal meccanismo, diventato fuori controllo e quindi asfissiante, degli esami da superare in tempo, i voti da mantenere intorno al 30 per prestigio e comparazione, stritolata da una prassi d’ateneo riconosciuta da sempre – appello, esame orale, valutazione – e adesso non più sopportabile. Dopo di lei si è ucciso Antonio Corrado, 29 anni, iscritto a Medicina all’Università di Chieti-Pescara. Ecco, nelle ultime tre stagioni undici ragazzi italiani, ha ricostruito Repubblica, hanno scelto di farla finita dopo aver garantito alla famiglia risultati che non arrivavano, promesso feste di laurea senza che ci fosse la laurea da festeggiare. Erano nove studenti maschi e due studentesse, tutti tra i 19 anni e i 30 anni. Frequentavano a Catania e Palermo, Napoli (due, qui), Chieti, Pisa e Bologna (due, anche qui), poi Pavia, Milano e Padova. Quattro di loro si sono uccisi nei primi quattro mesi del 2023, l’ultimo dodici giorni fa. Antonio, appunto. Come è potuto accadere che un percorso di studi accademici sia diventato il buio attorno a undici vite?

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Le bugie di Diana: “Tranquillo, papà, domani mi laureo”

“Vado in segreteria a ritirare la tesi”, aveva detto la laureanda della Federico II la mattina presto di lunedì 27 febbraio, uscendo di casa. “Ci vediamo nel pomeriggio”. Gli inquirenti, lentamente, stanno ricostruendo come in ateneo Diana ci sia andata davvero. Si è seduta nella carrozza della Circumvesuviana che attraversa la Napoli metropolitana, è scesa a Porta Nolana, ha camminato lungo Corso Umberto e raggiunto la sua facoltà. Lettere moderne. Non c’erano i volumetti della tesi in Letteratura italiana da ritirare, “papà, non deve essere più di trenta pagine, sto completando i ringraziamenti”. Non c’era la data fissata per la discussione. Latino 2, l’ultimo ostacolo, la seconda parte dell’esame difficile e obbligatorio, aveva fermato un percorso già faticoso. Cinque anni invece dei tre previsti. Una media del “27”, con due soli trenta, che avrebbe garantito un 100 su 110 finale. Diverse colleghe, e alcune compagne del vecchio liceo classico, si erano già laureate ed erano passate a macinare esami per la magistrale, il successivo biennio. Il paragone si faceva sempre più frustrante. E poi la docente di Latino 2, con lei Diana non aveva avuto il coraggio di affrontare il primo appello. “Sì, quell’appuntamento era diventato un incubo”, racconta il padre Edoardo, che in queste settimane si è affiancato ai carabinieri di Somma Vesuviana per tentare di capire perché la figlia del possibile riscatto sociale sia andata sul tetto di una terrazza in disuso. “Latino 2 è difficile, molti studenti lo mettono in fondo all’ultimo anno, ma la situazione nel corso della stagione era diventata favorevole a Diana”. La professoressa ostica era stata sostituita. Il problema, però, ormai era dentro la sua testa di studentessa infelice. “In questi giorni ho chiesto al nuovo docente, con una mail, se aveva avuto modo di valutarla”, ancora il padre. “Mi ha gelato: ‘Mi spiace, non ho avuto il piacere di conoscere sua figlia’”. Non si presentava a lezione, praticamente da ottobre scorso. “Mi aveva assicurato che aveva superato Latino 2 poco prima di Natale”. Bugie, bugie.

Il personal computer di Diana Biondi è ancora sotto sequestro alla Procura di Nola, lo usavano sia il padre che la figlia. “Lì dentro io non ho mai trovato una tesi di laurea. Diceva di aver trasferito il testo in una pennetta, ma quella che i carabinieri hanno recuperato dentro la borsa era vuota, lo spazio della memoria intoccato”. Papà Edoardo ha chiamato anche la tipografia, una di quelle attorno all’università: “Mi dispiace, a nome Biondi non è stata prenotata alcuna tesi da stampare”.

Diana non aveva un carattere forte, “se riceveva un torto subiva in silenzio”. Era attenta agli altri, però: “Si occupava dei problemi delle sue amiche di riferimento, i loro guasti d’amore. Una donna fragile ed empatica”. Aveva fatto il Classico soffrendo nel biennio, ma senza inciampi successivi. E alla fine si era diplomata con 76 su 100. L’iscrizione a Lettere moderne, due genitori molto vicini, felici della scelta: “Diana voleva insegnare”, spiega il padre, “e noi l’abbiamo aiutata a studiare”. A casa la ascoltano ripetere, le chiedono, con costanza, le date degli appelli, i risultati che ne conseguono: “Non direi che le abbiamo messo pressione, la nostra attenzione era naturale, non morbosa”. Gli esami di Diana hanno un andamento lento, e in media finiscono sopra il 25. Studiare all’università è un sacrificio per una famiglia di quattro persone e un solo lavoratore: “Le ho sempre detto che avrei pensato a tutto io, non doveva fare lavoretti, integrare il mio stipendio. Ogni mese controllavo le tasse universitarie e, sì, anche i voti”.

Oltre al pc, padre e figlia dividono l’auto: la studentessa ha preso la patente presto, ma guida poco. Nell’ultimo anno, il 2022-2023, diciannove esami alle spalle, decide di non rinnovare l’abbonamento alla Circumvesuviana e passa a seguire le lezioni da casa, su Teams. Continua a impegnarsi molto e con metodo: dalle 9,30 alle 13, dalle 15 alle 18,30. Dal lunedì al venerdì. Su YouTube segue tutor di Latino, la sua ossessione. “Negli ultimi mesi ha studiato solo quella materia”. Prima di ogni esame è ansiosa, “ormai ci eravamo abituati”. Mantiene quell’ansia a pelle anche adesso, che non si presenta agli appelli. Dallo scorso ottobre, quando per entrare nel registro universitario diventa un obbligo lo Spid, il padre non ha più accesso alla vita universitaria della figlia, che si è fatta stagnante.

“Papà, poi la discussione della tesi non è più oggi. Ha chiamato la docente, un problema, l’hanno spostata a domani”. Quel lunedì mattina, il 27 febbraio, giorno del compleanno di Diana, alcuni compagni l’hanno vista a Mergellina, sola. Potrebbe essere passata anche in facoltà, l’ultima volta per lei. In biblioteca, dove aveva detto avrebbe studiato, non la ricorda nessuno. Nel tardo pomeriggio rientra a Somma Vesuviana con il solito treno locale in ritardo e sale verso la montagna. Le telecamere della chiesa vicina l’hanno inquadrata, sola, che erano le 17, a Santa Maria di Castello, ristoranti popolari e panorami sull’area a mare del vulcano. Due ore dopo, il volo nel vuoto. “Non ci spieghiamo, e non se lo spiegano i carabinieri, come una persona timida e paurosa si sia fatta due chilometri a piedi, in salita, per raggiungere Castello. Diana, per spiegare, non ha mai imparato a nuotare, aveva paura, ma quel lunedì è salita in cima alla terrazza al tramonto. Ha trovato una forza d’animo spaventosa, voleva proprio farla finita”.

Era pronta ad affrontare la strada dell’insegnamento, voleva chiudere con la faticosa Triennale e iniziare l’anno del Tirocinio formativo. Proseguire, in parallelo, con il biennio della magistrale. Era pronta a fare le prime supplenze a scuola come neolaureata, si chiamano “Messe a disposizione”.

Il padre Edoardo dice che a Diana fosse venuta d’intralcio l’età, “si sentiva più grande rispetto alle sei colleghe di studio, quelle con cui scambiava lezioni audio e file”. Le vecchie compagne di scuola l’avevano superata, qualcuna già lavorava. “Sono convinto che per arrivare a tanto non ci sia stata solo una questione universitaria, forse anche problemi sentimentali. Il fidanzato ai carabinieri ha detto che tra loro era tutto a posto. No, non ne siamo venuti ancora a capo. Eravamo felici di festeggiare la laurea imminente, siamo sprofondati nel dolore”.

”Oppressi dall’ansia a 20 anni, l’università ci fa sentire insufficienti”

Emmanuele Napoli ha 24 anni, è iscritto a Giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano ed è rappresentante degli studenti. “Ogni volta che sentiamo notizie di suicidi di studenti pensiamo che avremmo potuto essere noi”. La pressione, spiega, è data dal confronto con gli altri, la paura di non essere all’altezza delle aspettative della famiglia e dei professori. “Alcuni mi hanno detto che avrebbero voluto farla finita. L’università non è più un’isola felice”.

Gli studenti: “Vogliamo il diritto di essere fragili”

Alle undici del mattino del 20 luglio 2022, uno studente di 25 anni, anche lui iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università di Napoli, si è lanciato nel cortile dell’ateneo. È morto. Aveva appena annunciato alla famiglia la discussione della tesi, ma gli esami fino a lì superati non arrivavano a dieci.

Nell’aprile del 2018 una studentessa, sempre della Federico II, si era tolta la vita lanciandosi da una terrazza dell’Ateneo mentre, in Aula Magna, i parenti aspettavano di ascoltare la sua tesi di laurea che, anche questa volta, non era stata mai scritta.

“Ogni giorno, ad ogni esame, ci insegnano che dobbiamo essere competitivi e veloci, che dobbiamo accumulare crediti nel minor tempo possibile per non finire fuoricorso”. Virginia Mancarella, coordinatrice di Link Coordinamento universitario, dice: “Ci hanno insegnato che il fallimento non è previsto, che non ci si può permettere di sbagliare né di prendersi il proprio tempo per imparare, studiare, riflettere. Siamo caricati di aspettative che non possiamo sostenere o che, almeno, non possiamo sostenere sempre”.

Dopo la morte di Diana Biondi, gli studenti sono scesi in piazza. Manifestazioni in dodici luoghi del Paese. “Non si può morire di università”, si leggeva sullo striscione davanti a Economia, a Palermo. “La vostra università ci uccide”, hanno scritto su Palazzo Giusso, una delle sedi dell’Orientale di Napoli. “Pretendono che siamo infallibili e chi non ce la fa è un fallito”, il cartello esposto proprio alla Federico II. Gli universitari organizzati hanno chiesto di togliere l’aumento delle tasse previsto per chi finisce fuori corso, e sportelli psicologici gratis e continuativi.

Il suicidio è la seconda causa di decesso tra i 15 e i 24 anni (la prima sono gli incidenti stradali): è un dato consolidato, ma è cresciuto dopo la pandemia di Covid-19.

 

“Andrea ha scritto con noi la tesi sulla tratta dei migranti”

Caterina Melai è una psicologa della Cooperativa Proxima di Ragusa, tre anni fa era stata avvicinata da Andrea Carnesecca, studente del corso triennale in Storia, politica e relazioni internazionali dell’Università di Catania. Proxima si occupa di tratta dei migranti, in Italia. Tratta lavorativa, perlopiù nei confronti degli uomini. Sfruttamento sessuale per le donne. Andrea abitava davanti agli uffici della cooperativa sociale, Via Monti Iblei, ed era intenzionato a scrivere la tesi di laurea proprio sul loro lavoro. Ha 22 anni compiuti quando la psicologa lo incontra, ed è arrivato in fondo alla triennale nei tempi previsti. “Ci siamo visti due volte, gli mancavano due esami. Doveva laurearsi nella sessione estiva, ma non è riuscito a passarli”. Il 22 novembre 2020, una domenica, si è gettato da un balcone di Via Archimede.

Con una borsa di studio Andrea aveva fatto cinque mesi a Créteil, a sud di Parigi. Aiutato da un inglese intermedio, B1. La tesi, con Proxima, l’aveva tirata giù rapidamente e si era già iscritto all’Università di Padova per la magistrale: Scienze per la cooperazione allo sviluppo. In una lettera all’università, inviata alla redazione interna, i genitori hanno offerto una loro spiegazione sui motivi del suicidio: “La famiglia ringrazia i docenti”, hanno scritto, “esclusi i due professori di questo anno accademico, con cui Andrea ha sostenuto gli ultimi esami… Nostro figlio era pieno di bontà”.

Il rettore Francesco Priolo, che nell’agosto 2019 aveva preso in mano un ateneo squassato dall’inchiesta “Università bandita”, i concorsi manipolati, ha ricordato: “In un appassionante libro di alcuni fa, il filosofo Umberto Galimberti ammoniva tutti noi contro i rischi di una mancanza di riferimenti-guida tra la generazione dei più giovani e aveva definito lo spaesamento e la perdita di senso del futuro un vero male oscuro, ‘il più inquietante tra tutti gli ospiti’. Una condizione in cui la vita, con le sue speranze e le sue opportunità, si appiattisce nel vuoto esistenziale e nella mancanza di una crescita emotiva piena. Noi adulti e docenti abbiamo una responsabilità storica sulle nostre spalle: fornire un progetto etico e culturale alle nuove generazioni”.

Ecco, ancora, la psicologa Caterina Melai: “Andrea era molto riservato, introverso. Avevo notato una timidezza e una difficoltà nell’accesso alla sua parte emotiva. Io, per deformazione professionale, cerco di mettere le persone a loro agio, uso la battuta, ma Andrea non si scioglieva nella relazione. So che si spendeva nel sociale, era attento agli svantaggiati. Per la società che abbiamo costruito, il fallimento mette a repentaglio sicurezza e identità. Un fatto circoscritto si inserisce in una fragilità e ad ogni ventata la persona vacilla. Il fallimento ha la potenza di far crollare il castello di carte costruito sulla tua vita”. Nell’orto sociale, Proxima ha scoperto una targa e installato una panchina. Dedicate ad Andrea Carnesecca.

Pasquale Colloca, professore associato del Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna, dice: “Il suicidio può essere interpretato come un fenomeno che scaturisce dalla tensione sociale, in determinati periodi storici più forte. Quella che si crea tra una meta che viene culturalmente definita come tale, la laurea ad esempio, e le effettive possibilità di raggiungerla. Dietro c’è un’interpretazione utilitaristica dello studio, come strumento per acquisire nozioni e voti, che genera ansia. Sarebbe limitante incolpare l’università, ma certamente la pressione sociale che gli studenti vivono tutti i giorni potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso. Viviamo una società che ci vuole sempre bravi e performanti e questo non è facile da reggere”.

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Francesco scomparso in campagna

Il 27 luglio 2021, nelle campagne di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa, è stato ritrovato il corpo di Francesco Pantaleo, 23 anni, studente di Marsala. Carbonizzato. Gli investigatori non hanno mai creduto al pestaggio, alla rapina. Francesco, anche lui, aveva detto ai genitori di essere a un passo dalla laurea. E non era vero. Iscritto all’Università di Pisa, frequentava il quarto anno di Ingegneria informatica. Quel martedì ha marciato per dieci chilometri, dalla casa in Via Adige che condivideva con due coetanei, Stefano e Massimiliano, per raggiungere le campagne pisane, un terreno con i girasoli. Aveva lasciato sul comodino tutto quello che apparteneva alla sua vita: gli occhiali da vista, l’iPhone, che gli aveva regalato il padre Tonino, il portafogli con il bancomat all’interno. Aveva tenuto con sé 200 euro, e le chiavi di casa. Il computer nuovo, lo usava da tre mesi, è stato ritrovato in camera, al suo interno non c’era neppure un file. Aveva detto al padre che l’appello per l’ultimo esame sarebbe iniziato proprio il 27 luglio, una data inesistente. Era timido, Francesco, e non aveva una fidanzata. Poche foto sui social, quasi tutte con la sorella, laureata proprio a Pisa con 110 e lode.

Due ragazzi, abruzzesi entrambi, si sono uccisi a un anno di distanza uno dall’altro mentre frequentavano l’Università Alma Mater di Bologna. Francesco, 23 anni, di Francavilla, ha annunciato alla famiglia che si sarebbe laureato il 7 ottobre scorso, in Giurisprudenza. Poi si è lanciato nel Fiume Reno, da Pontelungo. Figlio unico, viveva a Bologna da anni, in un appartamento comprato dai genitori. La fidanzata si era laureata due giorni prima, in Ingegneria, e i genitori di Francesco erano saliti per vedere lei e, quindi, attendere l’evento del figlio.

Un anno prima anche L. N., lui già 29 anni, originario di Pescara, iscritto a Economia nella sede di Forlì, aveva invitato la famiglia per il diploma di laurea. Si è lanciato sotto il ponte di Via Stalingrado, a Bologna.

Nel 2019 uno studente dell’Alma Mater si era sparato in un poligono di tiro a Eboli. Nel marzo 2011 un ragazzo di 26 anni di Conegliano Veneto si era tolto la vita gettandosi dal settimo piano del Dipartimento di Matematica della stessa università, a Porta San Donato.

Lo scorso 22 luglio un trentenne, impantanato al terzo anno di Medicina in lingua inglese, siamo all’Università di Pavia, prima di togliersi la vita ha inviato questa email – devastante per come si è presentata agli interlocutori – al rettore Francesco Svelto e alla redazione della Provincia Pavese: “Sono lo studente che si è tolto la vita in collegio”, aveva scritto, “non sono riuscito a cambiare nulla. L’Edisu”, che è l’Ente per il diritto allo studio universitario, “ha cercato di aiutarmi e gliene sono molto grato, ma non è solo una questione economica ma anche di (in)giustizia”.

Nella lettera il giovane metteva in discussione il sistema dei crediti necessari per passare all’anno successivo del corso. Lo studente adulto temeva di non riuscire a rispettare il programma degli esami annuali rischiando di perdere il diritto alla borsa di studio e il posto nello studentato. Aveva già avuto problemi di depressione.

Antonio Corlianò, iscritto all’Ateneo di Bologna, militante nell’organizzazione “Cambiare rotta”, ora dice: “L’università è stata dimenticata nel periodo del Covid e adesso che siamo tornati in presenza emergono i problemi del nuovo confronto con la realtà. I temi sono tanti: l’essere fuoricorso, le tasse alte da pagare, il merito come criterio di assegnazione delle borse che vincola il diritto allo studio, lo stress per le difficoltà nel trovare casa. Costruire l’eccellenza ha un prezzo”. Giorgia Salvati, studentessa di Filosofia: “Tra noi giovani è in corso una guerra nella speranza di poterci costruire un futuro dignitoso. Già chi si laurea in anticipo o con il massimo dei voti fatica a trovare lavoro, figurarsi chi arriva in ritardo con gli esami”. Camilla Piredda, coordinatrice dell’Unione degli universitari: “Negli ultimi anni abbiamo visto il progressivo deterioramento della salute mentale degli studenti. Il sistema universitario non solo è incapace di ascoltare coloro che manifestano difficoltà durante il proprio percorso di studi, ma, li sottopone a uno stress continuo, ad aspettative sempre maggiori”. 

La professoressa Cristina Riva Crugnola, associata di Psicologia dinamica all’Università Milano Bicocca, sostiene: “Il futuro per questa generazione è molto incerto: le risorse economiche sono poche e la gara per conquistarsele diventa centrale. Le stesse università sono entrate in una logica competitiva in cui i risultati aiutano ad accedere ai fondi e questo si riflette all’interno. Poi, ci sono i genitori che proiettano sui figli le loro aspirazioni e si sostituiscono. Lo vediamo negli open day di presentazione dell’ateneo, in cui spesso i ragazzi vengono accompagnati e a parlare con i docenti sono mamma e papà”.

 

Settanta sportelli negli atenei, la ministra non si muove

Dei servizi universitari di sostegno psicologico – arrivati a quota 70, presenti in tutti i 66 atenei statali e in alcuni privati – è responsabile la psicologa Angela Costabile, ordinaria dell’Università della Calabria. “Solo nel nostro ateneo lavoriamo con quattro psicologi e grazie ai nostri fondi ordinari. Ci occupiamo dei disagi che potrebbero sfociare in casi acuti e, senza creare allarmismi, siamo piuttosto preoccupati. All’Unical ci sono quaranta studenti in lista d’attesa: devono aspettare non più di tre settimane, ma alcuni sentono un’urgenza tale che chiedono raccomandazioni per saltare la fila. Operiamo in stretto contatto con il servizio sanitario pubblico, dove mancano gli psicologi. Non c’è dubbio che siamo di fronte a una generazione fragile, che ha difficoltà a immaginare il futuro e con pochi punti di riferimento. Prima una pandemia lunga e dura, bisogna andare indietro centinaia di anni per trovarne una di questa portata. Poi la guerra in Ucraina.Gli adolescenti e i post-adolescenti di oggi vivono in uno stato di trauma continuo. L’università è competitiva perché è competitiva la società. Due mesi fa, dopo l’ennesimo suicidio, abbiamo ascoltato dichiarazioni della ministra Anna Maria Bernini. Attendiamo di vedere fondi straordinari sul disagio giovanile emergente, sono necessari”.   

Il presidio psicologico della Statale di Milano un anno fa ha lanciato un questionario da cui è emerso che, su 7.096 studenti che hanno risposto, il 32 per cento era insoddisfatto della propria vita, il 12 per cento mostrava evidenti sintomi di depressione e il 48 per cento una forte ansia da prestazione. A Milano Bicocca nel 2022 le richieste di colloquio sono state più di 2.000. Dopo tre mesi di vita, 370 all’Università di Bergamo. Nello Spazio ascolto dell’Ateneo Ca’ Foscari, Venezia, la prima preoccupazione psicologica è “l’ansia da esame”. All’Università di Perugia ci sono già stati 1.180 colloqui e 184 percorsi intrapresi: il 71 per cento riguarda studentesse e l’82 per cento fuorisede. La sintomatologia più frequente è quella ansiosa e ansioso-depressiva. All’Università di Teramo si registra un incremento di ascolti del 30 per cento. All’Ateneo di Bari il numero di accesso al servizio è stato, da marzo 2020 a dicembre 2021, sei volte superiore rispetto allo stesso periodo di quindici anni fa. Nei sedici mesi di attività, all’Università di Catania sono stati “presi in carico” 563 studenti. Cinquanta minuti a seduta, dieci sedute al massimo. A Palermo le consulenze individuali e online sono state 2.450, 800 in più rispetto al 2019. “Molti universitari non conoscono i servizi a loro disposizione o hanno paura di esporsi”, dice Maria Grazia Scopazzo, referente del servizio di counselling psicologico a Catania.

Non ci sono fondi centrali, né una regia comune, per gestire la sanità mentale degli studenti dell’alta formazione italiana. La ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, dopo l’ennesimo suicidio aveva detto: “Aumentano le fragilità legate al post-Covid e alla necessità di misurarsi con un mercato del lavoro che richiede performance sempre più alte. Ma aumenta soprattutto il timore del giudizio negativo degli altri. Il nostro obiettivo è sostenere chi ne ha bisogno e aiutare a far capire che il merito è un percorso, ed è soprattutto una conquista con se stessi, non il risultato di una sola performance”. Sono trascorsi due mesi e mezzo da quel sussulto, ma all’annuncio non sono seguiti decreti né finanziamenti.

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Riccardo contro un platano, senza frenare

Stefano Faggin, 56 anni, titolare di un’azienda informatica a Padova, volontario della Croce Verde, non sa se suo figlio è morto per un incidente stradale o per un atto deliberato. Lo scorso autunno, nella notte fra il 28 e il 29 novembre, Riccardo, lui 26 anni, iscritto alla facoltà di Infermieristica dell’Università di Padova, ha perso la vita schiantandosi con la Opel Corsa contro un platano. Non sono state trovate tracce di frenata.

Il giorno seguente avrebbe dovuto laurearsi. L’aveva detto alla famiglia, che aveva decorato l’esterno della casa di Abano Terme con coccarde rosse e prenotato l’agriturismo sui Colli Euganei per quindici persone: Cabernet e Serprino. L’abito per la festa, scelto insieme al fratello. I soldi per il viaggio in Giappone, da fare a marzo per la fioritura dei ciliegi. Il corredo all’evento era pronto.

Il padre ha detto a Repubblica e a Tpi: “Conoscendo Riccardo, mi sembra difficile che si sia suicidato, ma non posso escluderlo. Certo, non stava passando un momento di serenità: aveva iniziato con qualche bugia e la realtà si è rivelata diversa da quella che ci aveva rappresentato”.

Il percorso universitario di Riccardo Faggin è stato lineare fino al 2019: diversi esami passati, con voti discreti e buoni giudizi da parte dei tutor che lo avevano seguito. Il lockdown ha interrotto le lezioni in presenza. E la frequenza delle prove tentate, e superate, si è diradata. La pandemia per Riccardo è arrivata in una fase di transizione: era finita la storia con una ragazza e stava cambiando compagnia di amici. “Le restrizioni hanno complicato quel momento di passaggio”, il padre.

Un inceppo su un esame, Filosofia del nursing, che altri colleghi avevano dato anche sei volte. Lui l’ha passato alla terza. In quelle settimane il ragazzo perde l’effervescenza naturale: “Siamo una famiglia molto unita, ci vogliamo bene. Credo che mio figlio sia entrato in depressione e, in questa sua sofferenza, la paura di deluderci lo ha spinto a creare una realtà parallela. Io e mia moglie abbiamo molto sofferto il tormento e la vergogna di non essere riusciti a intercettare quel suo disagio. Abbiamo sentito di aver fallito. Il tema fondamentale è che i nostri figli devono capire che quando hanno difficoltà, possono parlarne in famiglia. Se non scatta la scintilla nei ragazzi, è difficile scoprire problemi profondi…”.

Giovane di parrocchia, aperto, Riccardo Faggin voleva diventare un infermiere del soccorso alpino. “Si era isolato, diceva che era scazzato e non aveva voglia”, racconta l’amico di Montegrotto Terme. Dal 2020 non aveva postato più nulla sui social. “‘Sono pronto per la tesi’, ci aveva assicurato”. Ancora il padre Stefano. Il titolo era “Analisi sulla percezione del servizio sanitario da parte dei pazienti prima e dopo il Covid”. “Non ha mai voluto farmela leggere: voleva fosse una sorpresa”. Ha paura, il padre, che quella sgommata contro il platano fosse solo l’ultima bugia, la sceneggiatura finale delle menzogne messe in fila per allontanare gli studi. Forse Riccardo voleva solo simulare un incidente per evitare di festeggiare una laurea che non c’era. La messinscena è diventata la sua tomba.

“L’impressione è che il suicidio non venga più immaginato come un comportamento da cui non si può più tornare indietro, ma un limite da cui scaturisce una sfida in cui poter agire la propria onnipotenza per esorcizzare la paura e il senso di vuoto psichico”, ha detto Francesco Vitrano, referente dell’Unità di Neuropsichiatria infanzia e adolescenza dell’Azienda ospedaliera di Palermo.

Non è che il mondo universitario, con i suoi 1.822.141 iscritti (dati del 2022), sia diventato – come si legge sulla pagina Instagram di “Chiedimi come sto” – un luogo di “depressione e ansia” all’interno di una larga generazione giovanile spensierata e idealizzante. Il problema, è la generazione. La sua sofferenza, che esce dal perimetro accademico. Per comprendere la portata del fenomeno, ci sono i dati sui suicidi tentati ma non riusciti, o progettati ma non realizzati. Significativi sono quelli tenuti dal Bambino Gesù di Roma, il più grande ospedale pediatrico d’Europa: nel biennio 2018-2019 erano stati registrati 369 accessi per ideazione suicidaria o tentato suicidio. Dopo il lockdown, biennio 2020-2021, gli accessi di questo tipo sono aumentati a 649, vale a dire quasi due al giorno. Un incremento del 75 per cento. Il pronto soccorso dell’ospedale nel 2011 aveva gestito 155 consulenze neuropsichiatriche su minorenni, nel 2021 le consulenze sono state 1.824. Fra queste, i casi di ideazione suicidaria, tentativo di suicidio e comportamenti autolesivi nei giovani tra i 9 e i 17 anni sono aumentati di 40 volte. E l’età media di chi prova a togliersi la vita è 15 anni. La tragedia fra gli universitari, ecco, ha radici profonde, in un disagio che si appalesa negli anni della scuola dell’obbligo.

“Scusate i miei fallimenti, personali e nello studio”

Gli studenti che hanno allestito il corteo in ateneo, una fiaccolata per salutare la ragazza di 19 anni che nei bagni della Iulm di Milano si era impiccata, non la conoscevano. Era una matricola, era timida, in accademia non aveva amiche, né amici. I genitori erano sudamericani, lei era nata a Milano. Di più, a proposito delle generalità, i carabinieri non hanno detto.

Si era tolta il giaccone e lo aveva piegato a terra, di fianco alla borsetta. Aveva legato una sciarpa alla maniglia appendi-abiti. In un biglietto ha salutato parenti e amici, ha chiesto scusa, soprattutto ai genitori che le avevano pagato gli studi. Ha parlato di un esame al quale non si è mai presentata, il giorno stesso, e di “fallimenti personali e nello studio”. Soprattutto personali. Grazie zia, “per la bicicletta che mi hai regalato”. Scusa nonna, “purtroppo non sono intelligente come te”. Si è tolta la vita nella notte tra martedì 31 gennaio e mercoledì 1 febbraio.

Viveva dai nonni, era iscritta ad Arti ed eventi culturali. Aveva passato un solo esame, nel suo primo anno di università. Era di quelli abbordabili. Alla fine della fiaccolata gli studenti hanno piantato, per quella ragazza sconosciuta, un ulivo secolare nel parco di fronte all’edificio centrale.

Le giovani donne dell’Istituto universitario delle lingue moderne, guidato dal critico cinematografico Gianni Canova, hanno scritto: “Questo sistema accademico continua e continuerà ad uccidere”. Nel resto d’Italia i ragazzi frequentanti si sono scagliati contro la pubblicistica dei “laureati record”, nello specifico il racconto di uno studente barese che in due anni aveva terminato Giurisprudenza, magistrale prevista su cinque stagioni, alla libera e privata Università Luiss Guido Carli di Roma. Era figlio, lo studente rapido, di due genitori avvocati. “Non tutti hanno madre e padre in grado di pagare la retta universitaria, un affitto in un quartiere vicino all’università, senza dover per forza lavorare”. I titoli dicono che Nicola, il laureato più giovane d’Italia, a soli 20 anni, “ha fatto tutto con calma”, coltivando anche i suoi hobby. “C’è chi lavora, studia e passa ore sui mezzi pubblici, e le passioni le guarda con il binocolo”, gli studenti normali. Anna Maria Speranza, docente di Psicologia dinamica e responsabile del servizio di counselling alla Sapienza di Roma, spiega: “È come se gli universitari fossero divisi in due gruppi distinti e opposti: chi sceglie di aumentare la pressione tenendo aperti fronti diversi e chi, invece, rifiuta di mettersi in gioco e si sente demotivato. Entrambi, si muovono in un contesto in cui la realizzazione è diventata un valore in sé”.

La Sapienza, Roma
La Sapienza, Roma 

Per Antonio un block notes con 42 pagine di spiegazioni

Antonio Corrado ha affidato i suoi ultimi pensieri alle pagine di un block notes: “Sono inutile e inconcludente”. In un messaggio ordinato su 42 pagine raccontava di non sentirsi realizzato nella vita e di non riuscire a superare l’esame di Anatomia patologica, all’Università di Chieti-Pescara: “È insormontabile”. Nel primo pomeriggio di giovedì 6 aprile lo studente fuorisede di Oria, nel Brindisino, si è tolto la vita nell’appartamento dove viveva con la sorella più piccola, anche lei iscritta all’Università D’Annunzio, sempre a Medicina.

Lo ha ritrovato in casa proprio Maria Rossana, si era impiccato. A poche centinaia di metri dal campus universitario, il Villaggio Mediterraneo. Aveva 29 anni e aveva studiato Veterinaria all’Università di Bari, per poi passare a Medicina sempre nella sua regione. In Abruzzo si era trasferito  poco prima dell’avvento della pandemia. Era un lungo fuoricorso, ma gli amici hanno raccontato che questo sarebbe stato l’ultimo anno di studio prima della laurea. Portava addosso i segni dello stato depressivo, si era allontanato dai social. Prima di togliersi la vita, ha scritto il lungo messaggio.

Lo descrivono come un ragazzo estremamente timido e riservato. “Non sapevamo nulla delle sue difficoltà negli studi”, racconta un amico. “Antonio sorrideva sempre: gli piaceva viaggiare e fare foto. A noi diceva che all’università andava tutto bene”. Il rettore Sergio Caputi ha aggiunto: “Dal punto di vista didattico, la situazione dello studente non era drammatica: aveva superato brillantemente un esame a gennaio e poi un parziale. Non si era mai rivolto agli psicologi di ateneo. Credo che il periodo dell’emergenza Covid-19 abbia fatto gravi danni nei giovani”.

Questi ragazzi vivono in una società in cui non sono considerati, dice il professor Armando Piccinni, docente di Psichiatria all’Università medica internazionale Saint Camillus di Roma e presidente della Fondazione Brain Research, che gestisce un osservatorio nazionale sui suicidi. “Siamo centrati sul mondo degli adulti, sulla politica, la finanza, l’economia, ma molto poco sull’attenzione alle nuove generazioni, sull’istruzione, sulla cura e il trattamento del mondo affettivo dei ragazzi e sul loro sviluppo emotivo. I giovani hanno bisogno di qualcosa in cui credere. La storia è punteggiata da grandi ideali portati avanti proprio dai ragazzi con entusiasmo, forza, desiderio di cambiamento. Oggi però questi ideali non ci sono più, l’unica eccezione è la battaglia per il clima di Greta Thunberg”.

Emma Ruzzon lo ha detto all’inaugurazione dell’Anno accademico dell’Università di Padova. C’era la ministra Bernini e lei, 23 anni, iscritta a Lettere: “Sentiamo il peso di aspettative asfissianti che non tengono in considerazione il bisogno umano di procedere con i propri tempi. Da quando formarsi è diventato secondario rispetto al performare? Da quando studiare è diventato una gara?”. L’università non è una gara è stato, subito, un hashtag popolare. “È un tema non più derogabile, un gigante in una stanza, non può essere ignorato”, ha poi aggiunto. “Non vogliamo la laurea facile e non facciamo le vittime. Vogliamo essere messi tutti nelle condizioni di poter affrontare gli studi universitari, si chiamano pari opportunità e ad oggi non sono garantite. La velocità non può essere l’unico parametro, se cadi devi poter rallentare per capire cosa ti sta succedendo. La vita bella, che vuol dire vagamente dignitosa, ci spetta di diritto. Non è qualcosa che ci dobbiamo meritare”.

Lo stesso grido, durante le cerimonie accademiche, si è levato a Bologna, Modena e Reggio Calabria. Jacopo Terralavoro all’Università di Firenze ha detto: “Siamo messe e messi a dura prova da questo sistema che chiede tutto anche a chi non ha niente. Chi ha deciso di compiere il gesto estremo del suicidio rappresenta la necessità di cambiare una volta per tutte il paradigma universitario e ridare agli atenei una dimensione umana”. Francesco Ruggiero a Cassino, infine: “Abbiamo creato una società fondata su un modello di perfezione utopistica, in cui l’unico fattore fondamentale è performare, ma non si può cancellare il diritto alla felicità”.

A Flourish chart

“Francesco studiava sempre, non vedeva più nessuno”

Amici nelle stagioni più belle dell’adolescenza, inizio liceo, 14 anni. Giovanni Basile, che ora ne ha ventidue, è uno studente palermitano laureato in Scienze motorie alla Statale di Milano, la triennale. È chitarrista in un gruppo che si ispira al folk di Bob Dylan e Joni Mitchell, preistoria musicale per la generazione della trap. E vuole raccontare Francesco Mancuso, il migliore amico. Che non c’è più. “In quegli anni lui andava a Scienze umane al Regina Margherita, io allo Scientifico Benedetto Croce”. Fino ai sedici Francesco ha vissuto a Piana degli Albanesi, venticinque chilometri a sud di Palermo. “Eravamo un gruppo di amici grande, dieci persone, tutte molto strette. Trascorrevamo le estati insieme, e spesso Francesco mi invitava a casa sua. Era un’amicizia di vita, la nostra, non di studio”. Più avanti, con la maggiore età, il giovane Mancuso avrebbe preso Economia, a Palermo. “Io oggi sono iscritto alla magistrale di Riabilitazione neuromotoria”. Sempre a Milano.

Francesco Mancuso, coetaneo di Giovanni Basile, viveva con serietà lo studio. È stato così dal principio. E quella serietà negli anni dell’università sarebbe diventata la sua gogna. Il mal di studio. “Accusava le pressioni dei colleghi più brillanti e dei professori più esigenti. Non riusciva a sostenerle, Francesco era labile sul piano emotivo”. L’ultima estate da amici di vita è quella del 2021, al mare. Giovanni è già stanziale a Milano. Nel luglio successivo, sessione finita da poco, il ragazzo di Piana degli Albanesi non è a posto con gli esami. “Ricordo le ultime conversazioni: non riusciva ad andare avanti come tutti gli altri”. Diventò sempre più raro farlo uscire di casa. “Voleva vedere poca gente perché doveva studiare, anche in estate, e riprendere il passo dei colleghi”. Natale a Palermo, pochi mesi fa: “Francesco si era chiuso al mondo. Alcuni amici l’avevano visto a ridosso delle feste, era molto triste”. Di questo stato d’animo dolente non aveva mai parlato con nessuno, “neppure con la madre”. Tuttora lei non riesce a capacitarsi di quello che è successo.

È l’ultimo anno della triennale, mancano ancora sette esami: con la sessione di marzo Francesco Mancuso diventa un fuori corso. Un dolore sordo lo cattura. “Era dentro una competizione personale, tutta sua. Vedere questi insuccessi lo aveva fatto dubitare di sé e delle sue attitudini. Era molto intelligente, invece. E per lui un 18 all’esame era una sconfitta. Rammento le frasi sulla spiaggia: ‘Studio e non riesco a ottenere i risultati che ottengono gli altri, i professori me lo fanno notare”. Uno, in particolare, usava la parola “incapaci” per sottolineare un inciampo degli studenti. Francesco non riusciva a passare lo scritto in Econometria. Figlio unico di una famiglia benestante, i genitori – mamma di Piana, papà di Alcamo – avevano scelto di evitargli ogni pressione: “Prenditi il tempo che vuoi per gli esami”.

Molti amici dell’adolescenza si sono trasferiti a Milano, a Bologna, a Pisa. Per l’università. Francesco aveva questa casa a Piana degli Albanesi, e continuava ad andarci il fine settimana. Da solo. Domenica 15 gennaio, lo scorso gennaio, Francesco ha deciso che non c’era presente né futuro per lui, e ha bevuto un bicchiere di nitrato di sodio. Insufficienza cardiaca. Il giorno dopo sarebbe iniziata la sessione universitaria invernale. Ha lasciato un biglietto scritto a mano, parole confuse. Si capiva “fallimento”, “università”, “politica”. Seguiva la politica, era sconfortato dal suo declino. Alla fine del percorso di Economia, il padre gli avrebbe dato la gestione della sua attività ad Alcamo: una villa dove si organizzano matrimoni ed eventi. Francesco avrebbe voluto affiancarla all’assunzione in qualche azienda.

L’amico Giovanni Basile spiega che il malessere di una generazione è diffuso, è intorno: “Una nostra amica ha conosciuto un periodo di down psicologico, viveva male l’università”. E sono molti i ragazzi che vanno in terapia. “Io, quando non sono riuscito a entrare a Fisioterapia a Palermo, numero chiuso, venti posti su tremila candidati, sono crollato. Avevo provato tre volte, la terza a Messina: le estati passate sui libri dei test, tutto inutile. Ho pensato: mollo tutto. Ma quegli studi, la loro applicazione alla pratica sportiva, sono la mia vita. I miei genitori mi hanno sostenuto e ho deciso di riprovare al Nord, alla Statale. Le cose stanno andando, a Milano danno meno importanza ai voti e i professori cercano un rapporto personale con lo studente”.

Francesco, dice, era liberista, “io sono socialista”. Il suo umore era peggiorato a vista dopo il Covid, sapeva che poteva affidarsi a uno specialista e non l’ha fatto. “Vedo molta insicurezza tra i giovani, a partire dagli studenti di scuola. Mio padre è professore di liceo e mi dice che l’insegnamento è stantio, non nutre le passioni. No, la mia generazione non riesce a guardare lontano perché non si sente valorizzata. Viviamo un periodo buio per l’economia e i ragazzi che si affacciano al lavoro sono sottopagati. Ho fatto l’istruttore di sala per tre euro l’ora. Questa generazione, sì, ha iniziato a rifiutare i brutti lavori. Si sa, le menti dei più giovani sono quelle più influenzabili”. Servirebbe una rivoluzione. “Non quella anarchica, ma bisognerebbe cambiare tutto dalle fondamenta. La voglia è generalizzata, le resistenze del vecchio mondo restano granitiche”. Giovanni ha chiesto che il Dipartimento di Economia di Palermo conferisca una laurea honoris causa al suo amico Francesco Mancuso.

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