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L’università non serve più, almeno non per trovare lavoro

Da qualche giorno circola una offerta di lavoro interessante: Spotify cerca il capo degli studios per l’Europa meridionale e orientale. Base: Milano e Madrid. Obiettivo: creare o acquistare contenuti audio che celebrino le storie e le vite di chi lavora con la musica.

Dieci i requisiti richiesti. Da leggere con attenzione per capire come sta cambiando il mercato del lavoro: 1) una rilevante esperienza nel settore; 2) una passione da esperto per la musica, i podcast, la radio, la tv, i film e la cultura pop; 3) la capacità di comunicare e influenzare gli altri; 4) una notevole capacità nella gestione del budget; 5) la consapevolezza che la cosa più importante di tutte è la relazione con i partner; 6) notevoli capacità di presentazione e relazione con gli altri; 7) conoscenza dei sistemi di gestione e organizzazione aziendale; 8) una predisposizione ad analizzare ed utilizzare i dati per raggiungere gli obiettivi; 9) il metodo per pianificare tutto, anche con scadenza ravvicinate, e un’attenzione eccezionale ai dettagli; 10) infine il carattere, ottimista sempre, pronto ad adattarsi ai cambiamenti e a lavorare in squadra.

Manca qualcosa? Sembra di no. Oppure sì. Manca il titolo di studio. Irrilevante. Quella di Spotify non è una stranezza, ma una tendenza. Due anni fa un sito che pubblica offerte di lavoro ha raccolto le storie di 15 grandi aziende per cui la laurea non è più un requisito per l’assunzione: l’elenco si apre con Google, Apple ed IBM, ma ci sono anche la catena alberghiera Hilton, quella di caffetterie Starbucks e la Bank of America. Non solo digitale insomma. In Italia è più raro, soprattutto fra le corporation, le grandi aziende, ma per esempio a luglio la startup (di successo) Quorum, che gestisce i sondaggi e le analisi politiche firmate YouTrend, cercava un analista da assumere e fra i requisiti il titolo di studio non era menzionato.

Questa tendenza ci aiuta a capire la mossa che Google ha annunciato qualche settimana fa e che è stata definita “l’università di Google” anche se con l’università non c’entra nulla. Insomma, Google ha annunciato la creazione di tre “certificati” che si potranno ottenere con sei mesi di studio, al costo di 49 dollari al mese, e che per le assunzioni saranno valutati come alcuni diplomi di laurea. In particolare, per il caso italiano, Scienze dell’Informazione, Ingegneria Informatica e Ingegneria gestionale. Sei mesi contro tre anni. Va detto che Google ha già due “certificati” in corso: quello di supporto informatico e di sviluppatore in un popolare linguaggio di programmazione. Ora si aggiungono “analista di dati”, “gestore di progetti” e “progettista dell’esperienza di uso del software”. Possono sembrare lavori specialistici, o di nicchia, ma non lo sono. Sono i lavori del presente. Da qualche anno l’Unione Europea pubblica un report in cui aggiorna il conto dei posti di lavoro vacanti nel settore digitali. Alcuni milioni. Vacanti per mancanza di candidati, per mancanza di competenze. Il punto è che per ottenere quelle competenze finora serviva un diploma universitario, ma da qualche anno ci si è accorti che non è più così. Secondo gli ultimi dati, il 56 per cento degli sviluppatori nel mondo non ha un diploma. Hanno imparato da soli, hanno imparato facendo. 

Senza arrivare all’estremo di Elon Musk che ha detto che per lavorare alla Tesla non serve essere andati all’università, che quelli sono posti per divertirsi non per imparare; senza arrivare a tanto, è un fatto che per certe competenze, per certi posti di lavoro, anche importanti, anche ben pagati, l’università non serve più. Bastano sei mesi fatti bene, dice Google, sei mesi e sei assumibile. Da Google e da una cinquantina di altre grandi aziende che aderiscono al progetto. 

Questa cosa non vuole sminuire il valore dello studio, non è una offesa per l’università che resta il luogo dell’alta formazione, dove approfondire tutto, allargare gli orizzonti, progettare una carriera da ricercatore o ambire a posti di lavoro super qualificati. Ma nel mercato del lavoro oggi ci sono moltissimi posti liberi per cui tutte quelle cose non servono. Basta molto meno. In autunno qualcosa di simile apre a Roma: una scuola per sviluppatori sul modello di una esperienza di grande successo aperta a Parigi da qualche anno. 

Nel momento in cui, a causa della pandemia, la disoccupazione è tornata a salire ovunque, e le giovani generazioni, ancora fuori dal mercato del lavoro, sono automaticamente escluse dal giro di aiuti, incentivi e bonus governativi, dovremmo provare a far crescere opportunità di questo tipo: incoraggiare le aziende a formare i futuri dipendenti lavorando sulle employability delle persone, la loro possibilità di essere effettivamente assunte. (Repubblica.it)

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